CORSO DI ALTA FORMAZIONE IN DIRITTO DELLE CRISI D’IMPRESA. Marzo 2019
CORSO DI ALTA FORMAZIONE IN DIRITTO DELLE CRISI D’IMPRESA
AVV. DINO CRIVELLARI
MARZO 2019
E’ ormai inequivocabilmente acclarato che gli NPLS (sofferenze + UTP) sono stati originati, alla base, dalla crisi finanziaria del 2007/2008.
Se le banche non avessero perso fiducia tra di loro bloccando il meccanismo transazionale interno al sistema, forse non si sarebbe andati incontro al credit crunch più feroce che i tempi moderni abbiano mai conosciuto.
Gli NPL sono prevalentemente frutto del rarefarsi del credito. Come è altrettanto vero che gli NPL aggravano il credit crunch.
In Italia, la crisi del sistema bancario è stata vissuta come una conseguenza del diffondersi delle sofferenze.
Cioè, come il risultato del peggioramento della situazione economica reale che si è riflesso nelle banche attraverso la crescita delle sofferenze.
Tutte le scelte fatte durante la crisi sono state basate su questo presupposto. La conseguenza è stata che ci si è preoccupati innanzitutto di salvare le banche attanagliate dalle sofferenze senza guardare dalla parte dei debitori.
Anche questo però è vero solo in parte: mentre USA, Germania, GB ecc. investivano centinaia di miliardi per salvare le banche, in Italia si sosteneva che il sistema bancario non aveva bisogno di alcun intervento perché era sostanzialmente sano.
Si affermava questo tra il 2008 ed il 2011 mentre le sofferenze a bilancio passavano da 65 a 195 miliardi
Abbiamo cominciato a pensarla diversamente quando abbiamo “dovuto” introdurre il “bail in” e sono saltate le “banche risolte” e “le venete“. Cioè quando è dovuta intervenire la BCE. La scoperta che le banche avevano problemi di qualità dell’attivo, ha fatto venire subito l’idea giusta: creiamo una bad bank che liberi le banche dalle sofferenze e gestisca queste ultime con la logica del tempo.
Se ne è discusso in sede europea per tutto il 2015, sentendosi dire di no, nonostante altri paesi molto prima avessero adottato queste formule, e si è così giunti all’epilogo attuale che, purtroppo sembra salvare le banche, ma non salva l’economia reale: le cessioni massive coperte dalle gacs.
BCE e operatori finanziari hanno portato l’Italia a diventare il più grande mercato delle cessioni di NPLS in Europa. Tra il 2015 e il 2018, 100 miliardi di sofferenze sono state cedute dalle banche ai fondi di investimento facilitati dalle GACS, cioè da garanzie statali che rendono queste operazioni, già lucrose per gli investitori, anche molto meno rischiose.
Grazie a queste operazioni oggi possiamo dire che le banche italiane hanno una qualità dell’attivo molto migliorata rispetto agli anni precedenti. Senza contare che le cessioni massive hanno cambiato completamente la sky line del nostro comparto bancario che ormai è sostanzialmente posseduto e quindi amministrato dai fondi di investimento (gli unici che sono stati in grado di ricapitalizzare le banche in perdita a causa delle cessioni massive), facciamo invece delle considerazioni rispetto ad un tema più attinente agli argomenti trattati in questo corso sulla crisi d’ impresa.
Si impara a scuola, che le banche hanno un compito preciso: raccolgono risparmio ed erogano credito.
Cioè, portano i soldi di chi ne ha più di quanto ne voglia o possa spendere a chi ne ha meno di quelli che gli servono per produrre nuova ricchezza.
Nel nostro Paese una cultura imprenditoriale poco sviluppata e molto opportunista, ha favorito il bancacentrismo, cioè il ricorso prevalente all’indebitamento bancario per finanziare l’impresa.
Le aziende italiane sono mediamente più indebitate verso le banche, anche perché sono mediamente più piccole, rispetto ai loro concorrenti europei.
Di per sé questo non sarebbe un male in un mondo perfettamente equilibrato.
L’importante è che le banche siano sempre sufficientemente liquide per erogare credito e le imprese sufficientemente efficienti per restituire il debito.
Questo assetto è però molto vulnerabile. Basta che le banche diventino meno liquide ed il sistema salta. È quello che è successo nel 2008!
Se le banche smettono di erogare credito, le imprese che non hanno sufficiente autonomia finanziaria entrano in difficoltà, non pagano fornitori, dipendenti ed Erario; non pagano neanche le banche e falliscono.
Questo fenomeno si estende come una epidemia, le sofferenze crescono, le banche entrano in crisi.
E’ un fenomeno circolare che si avvita su se stesso.
Se dura poco o è poco diffuso, il mercato reagirà perché le aziende più deboli verranno sostituite da altre più forti o più efficienti e la fisiologia tornerà padrona della situazione. Quando le dimensioni del fenomeno sono troppo grandi, è il mercato che fa fallimento ed allora le soluzioni sono più complicate.
Nel nostro Paese ci siamo preoccupati che il default non colpisse in pieno il sistema bancario e quindi spinti dalla BCE ci si è preoccupati di alleggerire le banche dagli NPLS.
Le cessioni massive, però, non risolvono il problema dell’economia reale.
Passare un debitore da una banca ad un fondo di investimento, fa sembrare la banca migliore, ma non risolve il problema del debitore che tale era e tale rimarrà.
Che ci siano imprese non più in grado di stare sul mercato è una constatazione ovvia e naturale. Che queste imprese debbano cessare è necessario ed è bene che cessino nel tempo più breve possibile.
Ma il motivo del fallimento di una impresa mentre è accettato, ineluttabile e benefico se è il frutto della sua inadeguatezza produttiva o di offerta, lo è molto meno se la motivazione è finanziaria.
Una azienda che produce un farmaco salvavita è talmente importante per la società che se fallisse e quindi smettesse di fare il suo lavoro per motivi finanziari, sarebbe un vero delitto.
La finanza è uno strumento per favorire lo sviluppo della economia reale. Non può prevalere rispetto a quest’ultima.
D’altra parte il sistema bancario non può essere a rischio.
Quindi?
Il vero dilemma è questo.
La scelta fatta, “preservare le banche” è molto criticata anche da chi non ci si aspetterebbe.
George Soros e Rob Jhonson hanno detto: riteniamo che si sia persa una opportunità fondamentale quando, in risposta alla crisi, i costi del risanamento sono stati orientati a favore dei creditori rispetto ai debitori e che questo abbia contribuito alla prolungata stagnazione successiva alla crisi. Le ramificazioni sociali e le politiche di questa mancata opportunità sono state profonde.”
E chi ne ha beneficiato sono stati i fondi che hanno comprato a prezzi molto contenuti.
I dati di Banca d’Italia (note di stabilità finanziaria 19/12/2018) sono chiari.
Le banche recuperano dagli NPLS più di quanto recuperano dalle cessioni (e questo è ovvio), ma chi si occupa di gestione dei recuperi ha tassi di rendimento che le banche ormai hanno dimenticato.
Ma il vero punto è un altro.
Nonostante la cura da cavallo imposta alle banche con le cessioni massive, le banche non sono tornate a erogare credito.
Dal gennaio 2010 lo stock di credito erogato è sempre stato al di sotto del valore di gennaio 2009 per le imprese.
Il credito aumenta sempre e solo per le famiglie consumatrici, cioè solo dove crea indebitamento, ma non investimenti e produzione.
Quindi la cura delle cessioni massive non ha dato benefici, forse ha evitato ulteriori danni, ma resta che le banche tra maggiori vincoli di capitale e contabili sono sempre meno in grado di finanziare l’economia il che non aiuta a superare l’impasse della stagnazione e, ora, della recessione tecnica.
Forse si poteva fare altro?
Si. In particolare si doveva guardare al fenomeno degli NPLS non solo dal punto di vista delle banche, ma anche da quello del debitore.
Proprio perché la crisi è nata come crisi finanziaria, guardare al debitore avrebbe portato a risultati migliori come ha detto Soros a settembre 2018.
I debitori delle banche di dividono in 5 categorie:
1) Quelli che ce la fanno e ce la faranno;
2) Quelli che non ce la faranno comunque;
3) Quelli che è meglio non sostenere perché distruggeranno valore piuttosto che crearne;
4) Quelli che ce la potrebbero fare se avessero credito a disposizione;
5) Quelli che ce la potrebbero fare se avessero tempo a disposizione;
6) Una combinazione di 4) e di 5).
Disinteressiamoci delle prime due categorie.
La 3) comprende quelle posizioni in relazioni alle quali si mettono in atto di solito tentativi di salvataggio. Non sempre gli scopi sono limpidi. Molte volte gli stessi creditori prendono tempo con turn around velleitari, solo per ritardare gli effetti bilancistici delle ineluttabili perdite.
Le categorie più delicate sono la 4° e la 5°. Qui ci sono le imprese industrialmente e commercialmente valide, ma finanziariamente esauste.
Sono le vittime del credit crunch.
Se le banche non le sostengono più perché non possono più erogare credito, ovvero non possono più aspettare il loro rientro dai crediti erogati, non è una “cattiveria”. È la conseguenza delle regole sempre più stringenti su capitale e livelli di rischio che le banche subiscono.
Il dibattito sui guai prodotti da Basilea e seguenti è acceso ed interessante, ma non lo faremo qui.
Qui possiamo affermare che c’è un livello politico di intervento in favore delle categorie 4 e 5 colpevolmente assente.
Il caso più eclatante è quello delle “Costruzioni”.
Una impresa edile può essere più o meno efficiente, ma salvo madornali errori da parte della banca, viene finanziata perchè che realizza immobili (case, infrastrutture, immobili commerciali, ecc..). Quindi comunque il denaro che le viene dato si trasferisce in beni reali.
Eppure dal 2007 al 2017 il sistema creditizio italiano ha visto ridursi del 77% i finanziamenti all’edilizia “residenziale” (da 31.5 a 7 miliardi). Per il “non residenziale” si è passati da 21 miliardi del 2007 agli 8 miliardi del 2017: – 57.5%.
Si può ritenere eccessivo che nel 2007 ben il 12 % del credito bancario fosse a destinato a questo comparto, ma essere passati al 4% ha comportato un vero e proprio disastro.
E’ interessante notare che nel 2017 ben il 31% dei 115 miliardi di sofferenze facenti capo ad imprese (circa 30 miliardi) erano da ricondurre a imprese di costruzioni.
Questo significa che in % una quota di più del doppio dello stock di credito riservato alle costruzioni (era il 12% nel 2007) grazie alla crisi si è trasformato in sofferenza.
Gran parte di queste posizioni si sarebbero salvate se avessero avuto più tempo, cioè se avessero potuto attendere una inversione di tendenza del mercato.
Si trattava di fare quello che si chiama tecnicamente “consolidamento”, cioè allungare i tempi di rientro basandosi sulla esistenza di una garanzia reale rispondente a tendere.
Invece di questi interventi si sono favorite, anche con le GACS, le cessioni massive che comporta l’adozione di logiche liquidatorie che deprimono i valori immobiliari di mercato a causa dell’elevata offerta di immobili nelle aste giudiziarie e hanno l’effetto di moltiplicare la crisi del settore.
Sono fenomeni incendiari!
Dove sono i pompieri?
A dir la verità la politica ci ha pensato. Nella XVII Legislatura furono presentati ben 4 DDL sul cd Giubileo Bancario, un procedimento che avrebbe potuto contrastare le cessioni massive, aumentare il tasso di recupero delle banche ed evitare il trasferimento di ricchezza delle imprese e delle famiglie alla speculazione.
I DDL erano stati presentati dalle varie opposizioni parlamentari che poi hanno vinto le elezioni ed oggi sono al governo.
Le stesse forze politiche si sono ben guardate dal ripresentare testi per i quali si erano battute e non poco.
Alla domanda: perché? Non ho ricevuto risposta.
In questa Legislatura si è portato avanti un’altra iniziativa che aveva gli stessi intenti, ma che usava uno strumento diverso per “comprare tempo”: da una copertura assicurativa alla perdita che le banche potrebbero registrare accettando piani di ristrutturazioni di lungo termine a fronte di crediti ipotecariamente garantiti. Questo progetto ha avuto più fortuna e lo trovate all’art. 1 del decreto semplificazioni, limitato però alle imprese creditrici della P.A. Siamo soddisfatti professionalmente perché l’idea innovativa è passata, ma il perimetro di intervento è troppo limitato perché i risultati possano essere significativi.
Purtroppo l’andamento economico non aiuta e l’atteggiamento di estremo rigore che viene richiesto alle banche anche verso gli UTP fa temere che molti di questi, che normalmente appartengono proprio alle categorie 4 e 5, ben presto e con gravi conseguenze sociali ed economiche passeranno a sofferenza.
Il Legislatore che pure tanto si è dedicato al tentativo di salvare le imprese dalla crisi, e di questo si parla in questo corso, dovrebbe guardare con più attenzione i fenomeni di ordine generale come quelli che abbiamo qui descritto.
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