BANCHE LOCALI, QUALE FUTURO?
Le Banche locali, possono aggregarsi e diventare la cinghia di trasmissione della politica economica regionale?
Abstract
“Nell’ultimo ventennio il sistema bancario italiano è stato coinvolto in due processi: concentrazione degli istituti e lenta ma progressiva debancarizzazione del territorio, specie di quello periferico. Il ridursi del presidio del territorio riduce la capacità delle banche di comprendere in modo profondo le caratteristiche intrinseche delle singole imprese e la reputazione dell’imprenditore. Questo ha comportato un detrimento importante dei modelli di relationship banking nella determinazione del rischio.
In un sistema economico, come quello italiano, caratterizzato da una miriade di PMI e microimprese, la funzione delle banche locali resta cruciale e imprescindibile sia nel ridurre le asimmetrie informative tra depositanti e prenditori che nell’assistere la propria clientela soprattutto in fasi critiche.
Da altro punto di vista è vero che la vicinanza al territorio per una banca locale può essere anche una sua debolezza, considerati i condizionamenti dell’ambiente in cui opera.
Sarebbe utile individuare un assetto che assicuri il superamento tanto della dimensione troppo piccola quanto il localismo troppo pronunciato delle banche locali. Una banca privata, risultante dalla aggregazione volontaria di banche locali, con partecipazione minoritaria da parte dell’ente regione, potrebbe essere il valido compromesso. Questa banca potrebbe risolverebbe il paradigma dimensionale, salvaguardando il presidio del territorio entro un progetto industriale di sviluppo strategico di quel territorio, e avrebbe una composizione sufficientemente frammentata per poter garantire la rappresentatività degli interessi di ciascuna componente, senza subire acriticamente il peso dell’ente politico partecipante; anzi proprio la presenza della regione assicurerebbe il superamento dei particolarismi e l’essere cinghia di trasmissione della sua politica economica. Le eventuali esigenze di patrimonializzazione di questa banca potrebbero contare sulla maggiore fiducia dei risparmiatori residenti verso un istituto che sentirebbero loro più vicino, ma anche più rispettato e autorevole nella misura in cui sentimenti di rispetto e quindi di autorevolezza venissero nutriti verso l’ente regionale di cui i cittadini regionali sono gli “azionisti politici”.
Una banca regionale aggregante delle banche locali sotto la regia dell’ente regionale potrebbe così garantire la tutela degli interessi del territorio e diventare il fattore attivo del suo sviluppo.”
Antefatto
Mi è capitato tra le mani di recente un librettino regalatomi anni fa da un caro collega. Ha per titolo “Una domenica di Maggio” (Piero Melone e Franco Poeta, ediz. Ecra) e racconta della nascita della “Cassa agraria di prestiti di Battipaglia”, quando 42 modesti, ma lungimiranti, agricoltori di quella città e dei paesi limitrofi, decisero di mettere in comune le loro risorse per creare un volano finanziario per le loro imprese agricole altrimenti condannate a non svilupparsi efficacemente.
È una storia quasi commovente, ma di grande insegnamento. Era il 10 maggio 1914. Il 28 luglio di quell’anno sarebbe scoppiata la Prima Guerra Mondiale. Quei 42 soci fondatori diedero vita ad una banca che è tuttora sul mercato con il nome di “Banca Campania Centro Soc. Coop”. Una storia fatta di persone semplici e di un territorio che scopriva in quel periodo le sue potenzialità e una forma nuova di fare impresa: la cooperazione. I 42 che fecero “l’impresa” sono figli di una comunità nascente che hanno soprattutto avuto il coraggio di sperimentare, di mettersi insieme, di crescere mettendo in comune le loro idee e le loro forze. Ma ci ritorneremo più avanti.
Banche locali: dati dimensionali.
Nel 1913 in Italia avevamo 3400 banche con 4200 sportelli. Nel 2008 le banche erano scese a 799, ma gli sportelli erano ben 34.146. Nel 2019 le residue 500 banche esistenti avevano ridotto gli sportelli a 19.400. Tra il 2008 ed il 2019 gli sportelli chiusi sono stati 11.500. Dati Banca d’Italia al 2018 segnalano che il 50% degli sportelli appartenevano alle banche maggiori, il 15% alle banche piccole, il 10% alle banche grandi, l’11% alle banche medie e il 14% alle banche minori. Altra suddivisione: il 77% degli sportelli facevano capo alle banche S.p.A., il 6% alle banche popolari, il 16% alle BCC e l’1% a banche estere.
Questi numeri ci rappresentano alcuni fenomeni:
– l’elevato processo di concentrazione delle banche che ha riguardato in particolare le banche più grandi;
– la frammentazione delle banche escludendo le maggiori;
– il processo di debancarizzazione del territorio, specie di quello periferico.
L’aggregazione delle banche più grandi è un fenomeno che ha avuto inizio nel 1989 e non si è ancora arrestato. Fenomeno necessario perché, dopo la privatizzazione del sistema bancario italiano (1993) si è reso evidente che le nostre grandi banche erano comunque troppo piccole per competere con le altre banche europee. Economie di scala e di scopo dovevano essere perseguite pena la colonizzazione da parte delle più efficienti ed aggressive banche estere che pure non si sono peritate, quando hanno potuto, nel fare shopping tra le banche italiane in questi ultimi trent’anni. È sicuramente merito della Banca d’Italia aver operato in moral suasion per superare le difficoltà frapposte alle aggregazioni dovute al protagonismo, ma anche all’egoismo poco lungimirante, dei vecchi “padroni” delle banche grandi e medie.
L’aggregazione tra le banche grandi all’inizio non ne aveva ridotto il presidio del territorio. Le aggregazioni, anche se spesso nate per sopperire a criticità di singole banche, erano fondate sull’utilità di ampliare la rete distributiva (sportelli), motivazione che è venuta meno nell’ultimo decennio, anche a seguito delle crisi 2007/2008 e 2011/2012 , quando le banche si sono trovate a confrontarsi sia con il deterioramento del loro attivo (Npl) che a veder ridurre drasticamente il margine di interesse e quindi a dover fare i conti con la necessità di ridurre i costi operativi.
La chiusura degli sportelli da parte delle banche grandi, onda montante non ancora esaurita, ha aperto, sia pure in modo limitato, spazi di espansione alle banche minori che, infatti, in molti casi hanno approfittato aprendone di nuovi. Le banche minori, nello stesso lasso di tempo, hanno sfruttato il minor appetito al rischio delle banche maggiori, non partecipando, in media, al credit crunch conseguente alle ricordate crisi sistemiche, andando a sostituire in qualche misura le grandi banche nel finanziamento delle PMI.
Un punto di svolta in questo quadro si è verificato quando nel 2013 i regolatori comunitari (SSM, BCE, ESM, ecc.) sono entrati in partita sulla base dei trattati europei. In particolare, fu stabilita la demarcazione tra SI (Significant Institutions), le banche con attivo superiore a 30 miliardi, e LSI (Less significant institutions), con attivo inferiore a 30 miliardi. La differenza sostanziale introdotta fu’ che, mentre le SI sono soggette alla vigilanza diretta della BCE, le LSI sono soggette alla vigilanza decentrata delle banche centrali nazionali, per noi la Banca d’Italia. In Europa le 120 banche SI rappresentano l’80% dell’attività bancaria dell’area, il restante 20% attiene alle circa 5000 LSI.
Tra il 2015 ed il 2018 in Italia le banche erano ormai diminuite di ulteriori 93 unità. Di queste, 327 non appartenevano a gruppi bancari e 100 appartenevano a 58 gruppi bancari. Già nel 2019, a dimostrazione della velocità con cui il fenomeno si è propagato, il panorama era cambiato: i gruppi erano scesi a 52 e le banche non appartenenti a gruppi erano solo 104. Risultato questo dovuto anche all’avvio dei due raggruppamenti sorti sulla base della legge 49/2016, in base alla quale Iccrea holding aveva aggregato 140 BCC e Cassa Centrale Banca ne aveva aggregate 80. Poiché i due gruppi bancari delle BCC sono a tutti gli effetti banche con attivo superiore ai 30 miliardi, nel nostro paese le banche soggette alla vigilanza accentrata della BCE rappresentano circa il 60% del totale. Questo dato stride con quello della Germania che, pur avendo un numero di banche molto più alto (oltre 1500), ha solo l’1% delle sue banche considerate SI e quindi assoggettate alla vigilanza ben più stringente ed invasiva della BCE.
Le LSI italiane detengono una quota di mercato di circa il 18%, hanno un attivo medio di 1 miliardo, ma 40 di queste hanno attivi inferiori a 500.000 €, quindi sono effettivamente banche molto piccole.
Un paradosso tutto italiano è proprio dato dal fatto che le BCC, società cooperative con scopo mutualistico e voto capitario, pur essendo banche molto piccole, quali parti di gruppi bancari SI sono tenute a rispettare normative e regolamentazioni tipiche delle grandi banche. Si è così disapplicato di fatto il principio di proporzionalità cui pure si ispira la normativa di vigilanza europea che prevede una diversa gradazione delle regole da osservare a seconda che una banca sia SI o LSI. In Italia la stragrande maggioranza delle LSI, le BCC, sono soggette appunto a norme promulgate per banche molto più grandi.
Il paradosso italiano delle banche locali.
Questo paradosso ha attivato un grande dibattito sulle conseguenze che ne derivano specie in termini di costi di compliance che mettono in seria difficoltà anche i conti di molte BCC minori. Se il principio di proporzionalità non sarà ripristinato di fatto, è molto probabile che molte BCC saranno costrette ad aggregarsi tra loro per ottenere le indispensabili economie di scala senza le quali la loro sopravvivenza è a rischio.
Ma ancora più a rischio è l’efficienza della funzione bancaria nel nostro paese. Proprio perché l’Italia ha un sistema economico bancocentrico (molto lontano dai modelli mercatocentrici anglosassoni), la rarefazione e le difficoltà a competere delle banche locali potrebbero mettere in crisi il meccanismo di supporto bancario alla nostra economia reale caratterizzata per il 95% da PMI e microimprese.
Rispetto alla grande banca, che può assicurare alla propria clientela una gamma di servizi molto elevata, ma nell’erogazione del credito si affida prevalentemente a modelli di scoring, molto spersonalizzati e poco adatti alle PMI, specie se microimprese, la banca locale ha il vantaggio di poter operare secondo modelli di relationship banking. In questi modelli, nella determinazione dei rischi di credito, è prevalente il peso delle cosiddette soft informations, ossia delle informazioni non strutturate e spesso non documentabili che attengono alle caratteristiche intrinseche delle singole imprese ed alla reputazione dell’imprenditore. Soft informations raccolte nell’ambiente in cui opera l’impresa e che raggiungono senza filtri l’organo decisorio della banca.
Nelle grandi banche, in cui ormai le deleghe sul rischio sono molto accentrate, le decisioni sono assunte in base all’esame delle hard informations tratte da documentazione ufficiale (bilanci, visure, eccetera) spesso poco attendibili specie per le PMI. Le soft informations, anche se possedute dal front office, fisicamente più vicino al cliente, sono considerate meno determinanti ammesso che riescano a risalire lungo la scala gerarchica della struttura decisionale. È pur sempre vero che il credit scoring ha il vantaggio di individuare mediamente con maggiore precisione il merito creditizio del cliente, ma contiene il rischio di non cogliere il valore di singole iniziative imprenditoriali lontane o troppo diverse rispetto ai dati storici accumulati nei supporti informatici a base delle valutazioni. Peraltro, è noto che il credit scoring ha lo svantaggio di essere basato su dati storici e quindi di non intercettare prontamente le evoluzioni di mercato con la conseguenza non infrequente di “buttar via il bambino con l’acqua sporca”. Per tacere degli effetti pro-ciclici osservati durante i primi periodi di congiuntura sfavorevole.
Da queste considerazioni appare in tutta evidenza che, in un sistema economico caratterizzato da PMI e non mercatocentrico, la funzione delle banche locali nel ridurre le asimmetrie informative tra depositanti e prenditori, funzione essenziale di qualunque banca, diventa cruciale. Banca d’Italia osservava che là dove vengono chiusi sportelli e spariscono le banche locali, si assiste ad una contrazione del credito proprio perché le aziende marginali il cui merito creditizio è basato sulle soft informations non hanno più il miglior interlocutore bancario. La circostanza che, dopo la crisi 2007/2008, le banche locali abbiano ridotto la loro propensione al rischio meno delle banche grandi da’ proprio il senso di quanto le banche locali abbiano una capacità maggiore di quelle grandi di assistere la propria clientela in fasi critiche.
Giova ricordare che la crisi 2007/2008 non fu una crisi dell’economia reale, ma del mondo della finanza speculativa che aveva infettato il sistema bancario mondiale. In Italia solo dopo la crisi dei debiti sovrani (2011/2012) il credit crunch si propagò all’economia reale innescando quella che da molti è considerata la terza crisi, cioè quella del “rischio di deflazione” arrivata dopo il 2013 quando il Pil crollò del 10% (M. Affinito, “l’Europa delle banche”, ed Laterza).
L’ Europa, le banche locali e le specificità italiane.
In Europa la frammentarietà del sistema bancario è considerata un problema. Anche se Andrea Enria (presidente del Consiglio di sorveglianza della Bce) ha sostenuto che la “biodiversità” nei sistemi bancari è sana, le preoccupazioni per la stabilità e l’efficienza del settore suggeriscono regole stringenti per evitare le conseguenze sistemiche di eventuali future crisi, e siamo oggi nel pieno di quella pandemica della quale non vediamo ancora gli sbocchi. Queste regole di governance, capitale, gestione di Npl, ecc. militano tutte a favore della crescita dimensionale delle banche attraverso fenomeni di consolidamento mettendo a repentaglio la sopravvivenza di quelle locali.
È pur vero che quando la Banca d’Italia effettuò nel 2016 lo SREP (processo di revisione e valutazione prudenziale) delle LSI fornì dati confortanti. Lo SREP sulle SLI non BCC ebbe esiti favorevoli per il 60%, di attenzione per il 35% e critico per solo il 3% dei casi. Ancora migliori i risultati del coevo SREP sulle BCC: 73% positivo, 24% attenzione e anche qui 3% critico. Anche la patrimonializzazione delle LSI nel 2018 dava un CET1 ratio medio del 16,5%, contro una media di sistema del 13,5%.
Il punto critico delle LSI, peraltro ben patrimonializzate, è sempre stata la redditività. Nel 2018 il 10% aveva chiuso in perdita sia per la bassa redditività degli importanti investimenti in titoli pubblici (21% dell’attivo contro l’11,5% medio del sistema) e per il peso degli Npls (11,6% dell’attivo contro la media di sistema dell’8,7%), meno coperti (53,8%) rispetto alla media di sistema (54,3%).
A questo proposito è giusto però osservare che sia le BCC che le banche popolari avendo scopo mutualistico sono meno orientate al profitto delle banche spa in cui gli azionisti investono per conseguire un reddito da azioni. Questo è un altro dei motivi per cui le banche locali possono svolgere ancora un ruolo molto significativo specie in situazioni non brillanti dell’economia.
È pur vero che la banca locale, specie se di piccole dimensioni, ha un grave difetto: è fortemente condizionata dal territorio anche in termini negativi. Questa non è altro che l’altra faccia della medaglia, opposta al vantaggio di poter contare sulle soft informations, tipico delle banche a forte radicamento
Non è facile per chi deve decidere sui rischi di credito da assumere sottrarsi al condizionamento dell’ambiente, specie se molto ristretto.
Per quanto si possa pensare che un grande banchiere non sia immune dal rischio di condizionamento per il trovarsi a giocare a golf nello stesso club di suoi importanti clienti, questo è ancor più vero per il direttore di una banca locale che tutte le domeniche va alla messa nella stessa chiesa frequentata da un suo cliente che ha fatto domanda di fido o da quello a cui sta pensando di revocarlo. Se a queste “esternalità negative” aggiungiamo il condizionamento della politica locale, non possiamo che dare ragione a chi teme che ben difficilmente una banca locale possa essere gestita con olimpico distacco dal territorio. Insomma, la vicinanza al territorio è contemporaneamente la sua forza e la sua debolezza.
Non possiamo poi trascurare che in un mondo così fortemente in evoluzione, specie dal punto di vista tecnologico, le dimensioni modeste giochino a sfavore della capacità di implementazione di processi e prodotti che assicurino competitività.
Altro tema dolente per LSI è la gestione degli NPLS. Le grandi banche – a mio avviso non in modo sempre prudente ed avveduto – in quest’ultimo lustro si sono liberate di 264 miliardi di Npe grazie alle cessioni massive verso i fondi di investimento. Per le banche locali questa spesso non è la soluzione più adeguata ad affrontare il problema a causa delle dimensioni ridotte dei loro portafogli, inadeguate ai costi di strutturazione di queste operazioni. Quando alcune LSI si sono consorziate per creare la massa critica sufficiente a cessioni massive multioriginator sono state penalizzate in termini di pricing. Anche qui il problema della dimensione è un limite.
Peraltro, le cessioni massive comportano perdite consistenti che rendono necessarie ricapitalizzazioni adeguate e repentine. Per le banche locali le ricapitalizzazioni potrebbero essere molto problematiche. Meglio gestire gli Npls in house con i tempi necessari, fatti salvi gli effetti che vedremo con l’applicazione del calendar provvisioning. Insomma, se non mancano le “Luci” anche le “Ombre” sono consistenti.
Da notare che, nella prospettiva di consolidamenti tra banche, i commi 233-243 dell’art 1 L.178/20 (legge di Bilancio) mirano ad incentivare le aggregazioni aziendali: “In caso di operazioni di fusione e conferimenti di azienda avvenute entro il 31/12/2021 è consentita la trasformazione in credito d’imposta delle attività per imposte anticipate (DTA) riferite a perdite fiscali e all’eccedenza ACE (aiuto alla crescita economica).” (Giulia Bassani, Atlante, 2/21).
“Sono troppe per fallire”
A livello europeo si sta ragionando su come creare un modello omogeneo per affrontare in modo ordinato i casi di uscita dal mercato delle LSI. Mentre per le grandi banche (SI) la direttiva BRRD dovrebbe aver risolto il problema sintetizzato nello slogan “troppo grandi per fallire”, per le LSI lo slogan è diventato “sono troppe per fallire”.
Il cruccio è che ad oggi una crisi continentale o mondiale metterebbe in moto un fenomeno di liquidazione frammentaria dovuta alla disomogeneità delle norme locali applicabili. Ne deriverebbero comportamenti disomogenei e disordinati, temendo i quali l’efficienza del sistema bancario sarebbe già a rischio in situazione di normalità.
A fronte di questi timori, alcuni sostengono che bisogna operare per ridurre subito la frammentazione del sistema, con norme atte ad ottenere quanto prima la riduzione del numero degli intermediari minori e la crescita della loro dimensione media.
C’è da credere che questa impostazione (forse non benvista in Germania dove, come abbiamo riferito, si è molto gelosi della biodiversità e della numerosità delle banche, molte delle quali legate a filo doppio ai Lander che compongono la federazione tedesca) nel nostro paese significherebbe che le banche locali rimaste dopo la concentrazione delle BCC avrebbero vita breve.
Ma anche le stesse BCC appartenenti ai due gruppi prima citati passerebbero presto attraverso successivi consolidamenti, in parte già in atto (vedi federazione delle banche venete), trasformandosi in meri sportelli delle rispettive capogruppo.
Altra soluzione, più soft, si dice suggerita dal FMI, è che, in caso di crisi di LSI, la normativa europea consenta il finanziamento del trasferimento ad altra banca delle attività e passività della banca fallita, grazie ad una temporanea garanzia pubblica. Questa seconda impostazione, se non elimina i rischi di uscita dal mercato delle LSI condannate dai bassi tassi di interesse, dai costi operativi incomprimibili e dal rischio di credito in accentuazione, almeno dovrebbe tranquillizzare la clientela (e quindi evitare pericolosi e contagiosi bank run) e le altre banche, preservando la pervietà dei sistemi di pagamento.
Insomma, l’argomento è ben complesso e gravido di preoccupazioni, ma io continuo a pensare che, nonostante tutto, l’affermazione di Menichella non vada dimenticata: “il vantaggio competitivo nella banca locale si fonda sul binomio informazione-reputazione”.
Azzardiamo una ipotesi.
Ed allora, prima di intonare un definitivo “de profundis” per le banche locali, è giusto a mio avviso tentare di individuare soluzioni alternative.
Se ha ragione Menichella, ma il problema delle banche locali è quello dimensionale, cerchiamo di immaginare un assetto che tenti un compromesso, tale da consentirci di superare, per quanto possibile, e la dimensione troppo piccola e il localismo troppo pronunciato.
In molti sostengono che le banche locali dovranno aggregarsi per sopravvivere. Come abbiamo visto, a livello europeo, c’è chi ritiene che, rendendo più rigorose e sfidanti le normative sul capitale, le banche si vedranno costrette a fondersi tra loro. Questa logica, peraltro da sempre opportunamente perseguita via moral suasion dalla Banca d’Italia per prevenire crisi bancarie (la banca sana assorbe quella malata), avrebbe alcune controindicazioni:
– la banca più forte assorbirebbe la più debole, sottovalutando o annientando i valori del localismo della seconda. Sarebbe un meccanismo di colonizzazione;
– il fenomeno sarebbe affidato esclusivamente a dinamiche di mercato non sempre efficienti e comunque non sempre rispettose di utilità sociali e pubbliche ineludibili.
– senza un quadro di riferimento organico e l’opportuna moral suasion da parte delle autorità di vigilanza, gelosie, egoismi, miopie strategiche, campanilismi, volontà di non perdere potere, ma anche solo di non condividere le scelte con altri protagonisti, farebbero premio su qualunque tentativo di ordinate aggregazioni, se non rese necessarie da crisi imminenti dei singoli istituti.
L’esempio della Cassa Agraria di Prestiti di Battipaglia.
Facciamo un passo indietro. Quando in quella domenica di maggio del 2014 i fondatori della Cassa agraria di prestiti di Battipaglia andarono dal notaio per sottoscrivere l’atto costitutivo della loro “impresa”, avevano appena dovuto superare un imprevisto esiziale. Pochi giorni prima, il Banco di Napoli, allora banca vigilante per il sud, aveva fatto loro sapere che non avrebbero potuto far partire la loro banca perché Battipaglia non “faceva Comune” (lo divenne diversi anni dopo).
C’era una sola soluzione: coinvolgere come soci fondatori agricoltori residenti in paesi limitrofi già eretti a Comune.
Basta leggere le biografie dei fondatori di quella banca per capire che lo “sciovinismo” localistica doveva avere, come ancor oggi, un buon seguito nell’Italia dei campanili. Ma anche lo stesso tessuto connettivo fiduciario, già di per sé delicato, era ben difficile da integrare con inserimenti dall’esterno, addirittura da altri paesi. Eppure, i fondatori non si persero d’animo e, con intelligenza imprenditoriale da apprezzare, non si peritarono a coinvolgere nella compagine sociale operatori economici di Eboli (che faceva già Comune). Nacque così quella che ad oggi è la Banca Campania Centro, “La Cassa Rurale Artigiana”, tuttora viva e vegeta e che a seguito di una serie di fusioni, anche geograficamente è divenuta il centro della cooperazione di credito in Campania.
Forse questo antico esempio di “fare sistema” andrebbe seguito oggi dal management di tante banche locali, destinate probabilmente a sparire nell’arco di non molti anni, ancora abbarbicato ad un potere sempre meno esteso, ma pur sempre difficile da perdere volontariamente.
Insomma, dato per scontato che nel tempo la frammentazione del sistema bancario troverà modo di essere ridotta a scapito della vicinanza della banca al territorio, cerchiamo almeno di capire quale quadro di riferimento ipotetico potrebbe rappresentare un buon compromesso tra le necessità dimensionali e il presidio del territorio.
La cinghia di trasmissione della politica economica regionale.
La banca, per la molteplicità delle sue funzioni, può essere vista o come impresa orientata e calata interamente nel mercato (lo sono le banche moderne, generaliste e privatizzate) ovvero anche come cinghia di trasmissione tra l’istituzione responsabile della politica economica di un territorio ed il relativo mercato. Era questa una specifica caratteristica propria delle banche pubbliche operanti in economie miste come fu quella italiana fino alle grandi privatizzazioni del 92/93. Da allora le banche italiane sono, per legge, della prima specie.
Da qualche tempo però sia gli economisti che i politici sembrano aver riscoperto (o voler riscoprire) scampoli di economia mista anche per affrontare le conseguenze delle ripetute crisi di questi ultimi vent’anni e di quella pandemica in corso. Qualcuno si è spinto a dire che, così come ci vorrebbe una Bad bank pubblica per la gestione paziente degli Npls (in effetti Amco è già in nuce questo), potrebbe essere utile trasformare il relitto del Montepaschi di Siena in una banca dello Stato che torni a fare da cinghia di trasmissione tra istituzioni centrali ed economia reale.
Mentre sono da sempre un sostenitore della Bad bank mista, perché l’abbinamento pubblico privato consente i (non facili) compromessi tra stabilità ed efficienza, sono un po’ più perplesso sulla riedizione di una banca “commerciale” pubblica che rischierebbe di diventare pericolosamente inefficiente per il condizionamento politico e foriera di alterazioni della competitività del mercato.
A mio avviso quello che conta perché una economia privatistica non sia di rapina è la capacità dell’autorità pubblica di effettuare pervasivi ed efficienti controlli nell’interesse della collettività, non di entrare in competizione con i privati nello stesso campo. Chi controllerebbe il controllore?
C’è però un’area che a mio avviso converrebbe esplorare per verificare le potenzialità di nuovi esperimenti di economia mista, sia pur limitata al settore bancario. È l’area delle regioni.
Senza voler entrare in approfondimenti di carattere giuridico, anche di livello costituzionale (se necessario le leggi si cambiano), mi limito ad osservare che l’ente regione, una istituzione ormai così complessa e invasiva per tanti aspetti anche nel campo dell’economia, potrebbe trarre un notevole aiuto facendo leva sulla cinghia di trasmissione assicurata alla sua politica economica di territorio da una banca, questa sì commerciale, con la quale avesse un rapporto privilegiato.
Se questa generica considerazione fosse convincente, il risultato si potrebbe ottenere in diversi modi. Vediamone i casi estremi:
– fondare una banca regionale interamente controllata dalla regione, ma non mi pare che questo sia né utile, per quello che abbiamo già detto, né previsto.
– fare accordi di partenariato con banche locali o nazionali, ma in questo caso il rapporto sarebbe piuttosto debole, precario ed esposto a continue contrattazioni di mercato.
Tra questi due estremi potrebbe esserci un tertium datur rappresentato dalla partecipazione (rigidamente minoritaria) dell’ente regione, o di sue emanazioni finanziarie, ad una banca privata con base regionale che sia la risultante della aggregazione volontaria di banche locali di quel territorio.
Perché una situazione un po’ nostalgica come questa?
Prima di tutto perché non ritengo che gli egoismi e i particolarismi delle singole banche locali, nonostante le prospettive funeste, possano essere superati senza una spinta autorevole sul piano politico amministrativo.
In secondo luogo, perché una banca aggregazione di banche locali deve cambiare il paradigma dimensionale salvaguardando così il presidio del territorio, ma inquadrando il progetto industriale all’interno di una visione strategica del territorio, non solo più ampia, ma anche organica alla politica economica di lungo periodo.
La dimensione regionale da’ questo respiro, assumendolo come campo di intervento privilegiato per il fabbisogno creditizio di una unità amministrativa complessa come è appunto la regione.
Senza voler scomodare l’esempio tedesco delle landbank, che pure hanno le loro criticità, non ci si può nascondere che l’ente regionale può avere tutto da guadagnare dal poter contare su quella cinghia di trasmissione assicurata dalla banca nella cui gestione è presente, sia pure in misura minoritaria. Una banca aggregante di banche locali avrebbe una composizione sufficientemente frammentata per poter garantire la rappresentatività degli interessi di ciascuna componente, senza subire acriticamente ed in modo forse controproducente il peso dell’ente politico partecipante.
Non ci si nasconde la complessità della governance, ma proprio la presenza della regione assicurerebbe d’altronde il superamento dei particolarismi. Non ci si nasconde neppure l’eccezione che una presenza pubblica potrebbe inoculare il germe della politicizzazione, ma questo potrebbe essere opportunamente limitato dalla partecipazione pubblica minoritaria e da regole di governance molto attente ai conflitti di interesse.
In ogni caso questa formula supererebbe molte delle criticità sopra descritte a cominciare dalle economie di scala conseguibili grazie alle maggiori dimensioni, compresa, ad esempio, l’ultima a cui abbiamo fatto cenno circa la disponibilità di massa critica per le cessioni massive di Npls a prezzi di mercato.
Ma un altro aspetto mi sembra ancora più convincente. Le eventuali esigenze di patrimonializzazione nel divenire di questa banca potrebbero contare sulla maggiore fiducia dei risparmiatori del territorio verso un istituto che sentirebbero loro più vicino, ma anche più rispettato e autorevole nella misura in cui sentimenti di rispetto e quindi di autorevolezza venissero nutriti verso l’ente regionale di cui i cittadini sono in fin dei conti gli “azionisti politici”.
In conclusione, l’idea alla base di queste mie considerazioni è che, di fronte alle criticità delle banche locali, la soluzione è certamente il loro consolidamento. Se questa strada viene lasciata al mercato, l’effetto colonizzazione da parte di banche grandi o di banche estere sarà assicurato con grave detrimento degli interessi locali.
Una banca regionale aggregante delle banche locali sotto la regia dell’ente regionale potrebbe garantire la tutela degli interessi del territorio e diventare fattore attivo del suo sviluppo.
Senza un’iniziativa così impostata la probabilità che si assista ad una radicale debancarizzazione dei territori periferici è estremamente elevata.
È un tema aperto.
Dino Crivellari