NPE 2022: IL SORPASSO DEI FONDI
Banca Ifis ha pubblicato giorni orsono il suo “Report Market Wacht Npl, Consuntivo 2020 Forecast 2020/2022”. Come sempre completo, preciso, trasparente e ben documentato.
Commentiamo qui in particolare la tavola “Stock complessivo Npe…” (pag. 22).
Dal 2015, punto più alto dell’ emersione di Npe in Italia (362 mld), al 2020 le banche italiane hanno ceduto a terzi circa 264 miliardi di crediti deteriorati (pag.11). Ciononostante, lo stock complessivo di Npe in Italia, nei cinque anni, è passato da 362 mld a 340 mld, cioè è diminuito di appena 22 mld.
Nel 2020 le banche avevano in carico Npe per 114 mld su 340, quindi ben 220 mld erano in carico ai cessionari che, salvo pochi casi come appunto Banca Ifis, sono intermediari non bancari o società di recupero non soggetti alla stringente regolamentazione e vigilanza riservata agli intermediari bancari.
Se non è dubitabile che la qualità degli attivi delle banche italiane, grazie alle cessioni massive avviate dal 2015, sia nettamente migliorata (lo Npl ratio è sceso dal picco del 10,6% del 2016 allo stimato 3,1% del 2020, pag. 25 ) , è però evidente che l Italia ha ancora un enorme e non risolto problema di Npe che, secondo Banca Ifis, potrebbe aggravarsi raggiungendo nel 2022 i 441 miliardi di stock, dei quali 150 mld nei bilanci bancari e 291 mld in mano a terzi cessionari. Anche PWC di recente ha stimato in crescita tra i 60 e i 100 mld gli Npe italiani.
Di poca consolazione l osservazione che ci toccherebbe una quota del 31,5% del credito deteriorato europeo (se fosse vera la previsione worst di Enria di 1400 mld) , un po’ più bassa di quel 36 % che avevano raggiunto nel 2015 quando l Europa registrava il record dei 1000 mld di Npe. L Italia ha pur sempre solo il 15% del Pil europeo, che potrebbe ridursi nei prossimi anni.
Banca Ifis prevede che il coverage ratio di sofferenze e Utp resteranno stabili fino al 2022, rispettivamente il 62% ed il 41% (pag. 27). Questi dati, migliori della media europea a dimostrazione della prudenza delle nostre banche, fanno però prevedere che le future cessioni massive costringeranno le banche a registrare nuovamente perdite significative. Se si confermasse il prezzo medio degli Npls di 23,3% (pag. 16), registrato tra il 2017 ed il 2020, le banche perderebbero il 38,7% di GBV cui aggiungere il 38% di accantonamenti. Mal contando, ogni sofferenza ceduta costerà alle banche più del 76% del credito originario, poco migliorabile per effetto delle Gacs che hanno sì portato ad aumenti del prezzo (36% nel 2020) , ma difficilmente potranno confermarlo a causa delle performance in discesa di quasi tutti i portafogli garantiti. Più complicato prevedere le perdite sulle cessioni di Utp, ma anche qui ci si aspettano prezzi in discesa.
Sostengono alcuni esperti affidabili che i prezzi di cessione sono destinati a scendere per effetto della combinazione di alcuni rilevanti fattori. L offerta è destinata ad aumentare e del pari il tasso di incertezza, elemento fondamentale per il pricing, a causa delle prospettive non consolidate di tempi e condizioni di uscita dalla recessione pandemica . Questo comporterà per le banche un aggravamento delle perdite che potrebbe far ricordare con nostalgia i circa 74 miliardi di ricapitalizzazioni resisi necessari tra il 2009 ed il 2019 a seguito della precedente crisi.
Lo scenario delineato è inusitato. Già nel 2018 quasi la metà degli Npe erano in mano a soggetti non bancari, ma nel 2022 solo il 34% potrebbero essere ancora gestiti direttamente dalle banche.
Ci si chiede se, per gli stessi motivi (a mio avviso anche di ordine pubblico) per i quali le banche sono soggette a regolamenti e controlli particolarmente stringenti, le autorità politiche, ma anche quelle preposte alla vigilanza, non riterranno necessario assoggettare questa area così grande e delicata del nostro sistema economico finanziario a logiche autorizzatorie e di supervisione analoghe a quelle degli intermediari creditizi. Timide su questo tema le indicazioni della Commissione europea pubblicate a metà dicembre dello scorso anno.
Il rischio è che, salvate le banche grazie alle costose, ma efficaci, cessioni massive, il problema degli Npe, non risolto, faccia emergere criticità nel limitrofo settore dei fondi investitori che potrebbero trasformarsi da “soluzione” in “problema”. Per non parlare del mondo dei debitori che non beneficiano in alcun modo del trasferimento fuori dalle banche delle loro obbligazioni insolute. Anzi.
Si tratta di una evidente accentuazione del fenomeno di disintermediazione del sistema bancario di cui non sono chiare immediatamente le conseguenze. Altrettanto non chiare le conseguenze dell’espansione così ampia e rapida dell’area di intervento dei fondi che investono in Npe.
La disintermediazione delle banche comporta, tra l’altro, una riduzione della loro responsabilità sull’area della criticità creditizia di cui pure sono all’origine.
La prima cosa che viene in evidenza è che perdere la “cultura” della crisi del rapporto creditizio, e quindi delle problematiche di recupero del credito, può ridurre la expertise delle banche anche nella fase di erogazione e monitoraggio. Questo ne può ridurre l’efficacia, ma potrebbe anche ampliare in modo subdolo l’appetito al rischio avendo acquisito come normalità il trasferire al mercato il credito difficile, anche quando non è certo che sia del tutto irrecuperabile.
Il forte orientamento alla cessione degli Utp , tanto raccomandato anche a livello europeo, farà perdere al personale bancario l’esperienza nella gestione di posizioni complesse e da ristrutturare, per affrontare le quali le competenze professionali e tecniche una volta ne esaltavano la funzione.
È da credere che queste competenze verranno drenate dai cessionari e dai loro servicer che, da puri recuperatori di creduti insoluti, si troveranno a dover gestire contratti creditizi non ancora risolti e probabilmente alquanto complessi sia giuridicamente che tecnicamente. Ricordo che, quando nel 2000 mi fu affidata la responsabilità di costruire e poi dirigere quella banca che tuttora è il più grande servicer italiano, non accettai di ricomprendere nel perimetro le posizioni che allora si chiamavano “ristrutturati”, gli odierni Utp, perché non gestibili all’ interno di una macchina industriale di recupero crediti. Nel perimetro ricaddero invece i cd. “Incagli revocati”, cioè posizioni con i contratti creditizi già risolti.
Insomma, è probabile che in tempi brevi le banche perderanno professionalità costruite in molti anni e non facilmente rimpiazzabili. Temo che, come accadde dopo il 1993, quando la banca universale fece tramontare gli istituti e le sezioni di credito speciale, ricche appunto di professionalità specialistiche, quella imboccata sia una via senza ritorno.
La clientela ceduta, a sua volta, perderà la relazione con quelle strutture bancarie che l’avevano accompagnata per molti anni, dalle quali erano ben conosciute, e si dovrà interfacciare, ex abrupto, con controparti, non solo prive di memoria storica, ma del tutto disinteressate alla conservazione per quanto possibile del valore economico del cliente, azienda o famiglia che sia. Ma anche disinteressate alle sorti del territorio in cui la crisi della singola impresa spanderà l’alone delle sue difficoltà. L’ effetto prociclico, con estensione delle criticità alla filiera (pensiamo al cd effetto contagio delle nuove regole di default introdotte all’inizio di quest’anno), non tarderà.
D’altra parte non si può pretendere che gli investitori in Npe , i quali già si assumono rischi con alti tassi di incertezza , possano raccomandare ai loro servicer policies attendiste o caute per evitare l’effetto contagio. Non guadagnano dal margine di interesse, ma dalla plusvalenza sul prezzo pagato per acquistare il credito.
Gli stessi servicer, remunerati a risultato, sono costretti ad operare con determinazione e moderata flessibilità.
A proposito dei servicer, il fenomeno di cui ci stiamo occupando rischia di metterne in evidenza i limiti di capacità di assorbimento.
L’incremento di Npe stimato da Banca Ifis è correlato ad alcune scadenze prossime, concentrate in un periodo piuttosto breve: il venire meno delle moratorie per i mutui e fiscali, la fine del divieto di licenziare e della cassa integrazione straordinaria, lo sblocco dei fallimenti e delle esecuzioni, l’entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa. Tutto ciò si andrà a sommare all’entrata in vigore della citata nuova definizione di default e del calendar provisioning.
Nell’arco di pochi mesi si concentrerà un incremento delle criticità creditizie forse mai visto prima nel dopoguerra.
Sarà ben difficile che i servicer italiani riescano ad assorbire in così breve tempo centinaia di migliaia di nuove posizioni. Già oggi la maggior parte di loro è satura. Il che potrebbe provocare inefficienze con conseguenze oggi non misurabili anche per gli investitori e quindi per i prezzi di mercato degli Npe. Per non parlare delle ricadute sulle Gacs.
In conclusione, c’è da augurarsi che sia le istituzioni politiche che quelle tecniche e regolamentari, sappiano adoperarsi in tempo per evitare gli effetti dello tsunami economico e sociale prossimo venturo.
Avv. Dino Crivellari
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