“Sceriffi” della BCE partecipano alle riunioni dei consigli di amministrazione delle banche.
Guerra aperta tra Lorenzo Bini Smaghi, già membro del Comitato esecutivo della BCE ed attuale presidente della Société Generale, ed Andrea Enria, presidente del consiglio di vigilanza della BCE, su quella che viene considerata un’eccessiva invasività degli ispettori della Vigilanza europea nell’attività operativa delle banche.
Bini Smaghi si lamenta per iscritto con la BCE per le frequenti richieste di dati ed elementi di dettaglio che vengono avanzate dagli ispettori alle banche vigilate. Ma l’elemento che accentua la frizione è la richiesta da parte degli uomini della vigilanza di essere invitati a partecipare alle riunioni dei consigli di amministrazione e degli organi collegiali delle banche.
La risposta di Andrea Enria non si è fatta attendere. L’essere presenti consente di osservare da vicino che cosa accade durante le riunioni e di comprendere meglio se la governance della banca è più o meno forte e determinata. La preoccupazione dei banchieri è che in tal modo i Consigli di Amministrazione non si svolgerebbero all’insegna della libertà di discussione e verrebbero condizionati i comportamenti dei membri degli organi collegiali proprio per la presenza degli “watchdog” della vigilanza.
A dire il vero questa invadenza potrebbe comportare che le decisioni da assumere vengano anticipate in precedenti riunioni informali, trasformando le sedute degli organi collegiali in “messe cantate”, appannando la trasparenza, la sincerità e l’autonomia dei membri.
Non è la prima volta che le banche lamentano un eccesso di invadenza degli organi della vigilanza nella loro operatività, ma finora non era accaduto in modo così pubblico ed eclatante.
Dopo le crisi del 2008 e del 2011 e l’avvento della BCE come l’organo supremo di vigilanza del sistema bancario, si è verificato un fenomeno controintuitivo rispetto alle logiche neoliberiste che avevano caratterizzato anche il mondo delle banche dopo gli anni 80.
In realtà i Regulator si sono preoccupati che le banche privatizzate, per l’Italia dal 1990 in poi, avessero assunto comportamenti troppo orientati al puro profitto ed al valore per gli azionisti esattamente come accade per qualunque azienda privata operante in qualunque settore.
I disastri prodotti dalle crisi finanziarie che avevano messo a dura prova la tenuta del sistema a livello mondiale ha indotto i Regulator, e la Vigilanza in particolare, ad affrontare con molta più determinazione il loro compito di garanti della stabilità del sistema preoccupandosi di contrastare per quanto possibile una cultura manageriale orientata ai risultati di breve periodo ed ai ritorni in termini di bonus a favore del management. In sostanza i Regulator hanno perso fiducia nella capacità dei vertici bancari di operare secondo i crismi della prudenza del “buon banchiere”.
Un aneddoto che viene raccontato in certi ambienti può essere d’aiuto a comprendere il problema. Sembra che durante un consiglio di amministrazione di una grande e potente banca italiana agli inizi degli anni 2000, quando il presidente propose un sistema di incentivazione del management, qualcuno fece osservare come non fosse previsto alcun bonus per il presidente. La risposta del presidente fu lapidaria: “Quando mi faccio la barba la mattina, non voglio chiedermi se le decisioni di ieri fossero state prese nell’interesse della banca o nel mio interesse personale a beneficiare dei suoi risultati economici”.
Il mito del “buon banchiere” che assume decisioni prudenti governando un’azienda, la banca, tanto potente quanto fragile, appare ormai appartenere all’archeologia bancaria. Secondo le logiche neoliberiste la banca è un’azienda come le altre, dedita al profitto.
Questa impostazione non è del tutto coerente con la sua funzione infrastrutturale e quindi sociale che dovrebbe essere la preoccupazione prevalente del suo management orientato prima di tutto alla stabilità nel tempo.
Da quando i Regulator si sono resi conto della dicotomia tra le logiche della profittabilità e quelle della stabilità del sistema si è assistito ad una produzione di regolamentazioni, norme, direttive e linee guida estremamente prolifica. Poiché però gli organismi europei preposti al governo dei mercati e degli intermediari sono vari, le banche si sono trovate a dover affrontare una pluralità di indicazioni a volte non sempre coerenti tra di loro.
Un esempio per tutti il diverso approccio della Commissione europea e dell’Eba rispetto alle nuove regole sul “default”. Non senza ragione Andrea Enria, nel rispondere alla lettera di Bini Smaghi, sottolinea che “laddove una banca fallisce ci sono fattori diversi, ma c’è sempre un fallimento della governance”. Ma che si arrivi addirittura a far presenziare gli “watchdog” della Vigilanza alle riunioni degli organi collegiali apicali delle banche, non può che significare che gli strumenti di indagine e di verifica degli organi ispettivi non sono ancora in grado di cogliere per intero e con efficacia le criticità gestionali che possono condurre ad un’alterazione dell’andamento degli intermediari e della efficienza del mercato.
Dino Crivellari